martedì 6 dicembre 2016
Dell' elogio del fuori tempo (massimo)...
Questo è un post assolutamente fuori (dal) tempo, e fuori (da ogni) luogo.
Non è un post che si pone il problema di essere in linea con l'attualità, e non conterrà commenti coerenti con quanto sta accadendo fuori da questa bacheca.
Ma io sento il bisogno di recuperare il mio -forse il nostro- tempo.
Il tempo per riflettere, per respirare, per fermarsi mentre tutto e tutti sembrano correre come forsennati.
Questa idea malsana che si debbano fare quante più cose possibili nel minor tempo possibile, lasciando all' otium solo un ruolo ( e un tempo) residuale è un portato subculturale degli anni Ottanta che io stessa continuo ad applicare alla mia quotidianità, senza comprendere che è una delle cause del "logorio della vita moderna" (e il Cynar non mi piace neppure, anche perché Ernesto Calindri seduto tranquillamente a un tavolo in mezzo ad una via cittadina non potrebbe starci:verrebbe travolto dal traffico impaziente).
E quest' ansia da prestazione, per cui dobbiamo essere onnipresenti e millantare conoscenze-amicizie -contatti, ci sta pian piano conducendo a un volontario eppure inconsapevole analfabetismo funzionale, per cui alla fine si ottimizza la risorsa più importante che abbiamo: il nostro pensiero e il nostro sapere.
Come facevo alle medie, quando producevo il riassunto, del riassunto, del riassunto. Un Bignami al quadrato, che alla fine non mi serviva a niente.
Allora, riprendiamoci il nostro tempo!
Io non ricordo, per esempio, da quanto tempo non mi capita di viaggiare da turista per Pistoia.
Da quanto non mi capita di ascoltare le voci della mia città, perdermi nel ricordo della Pistoia che fu, chiedendomi quali interconnessioni materiali ed immateriali l'abbiano portata ad essere ciò che è oggi.
Eppure, le nostre città non sono forse parte di noi stessi?
Non rappresentano un po' quella memoria collettiva junghiana che ci forgia in parte prima che noi stessi esistiamo?
Sono tutte domande che mi sono sorte ieri sera, durante una conversazione molto interessante con alcuni amici.
E mi è venuta voglia di riappropriarmi del racconto della mia città, di riannodare i capi di una corda spezzata nel momento stesso in cui ho deciso cve contava più la quantità che la qualità.
Mi sto convincendo che il tempo della riflessione deve tornare al centro della mia vita.
Affannarsi non serve più.
L'unica vera rivoluzione-come dicono i buddisti- è la rivoluzione individuale.
Una rivoluzione dolce e faticosa, ma che in questo tempo di approssimazione e di (false) certezze, che spesso si trasformano in dogmi incrollabili, è l'unica vera rivoluzione possibile e soprattutto duratura.
Non ho scritto praticamente niente sul referendum, né prima, né dopo.
Non è capitato a caso; l'ho fatto volutamente, perché ho trovato che il rumore di fondo fosse già sufficientemente alto. Ho spiegato a chi mi ha interpellato su cosa votare quello che era il mio punto di vista, assumendo il ruolo e la responsabilità che la militanza politica mi conferisce, ma senza clamori.
Ho le mie idee rispetto agli scenari che si aprono ora per il mio Partito e -soprattutto- per il Paese, ma non ingaggerò nessuna discussione.
Perché penso che il momento sia per tutti noi molto serio e complesso, e richieda più cautela e atteggiamento inclusivo, che settarismo e appartenenza.
Magari identità, questo sì, che è l'esatto contrario dell'appartenenza: chi sa cosa è, non ha bisogno di chiudersi in un recinto per definirsi, ma cammina verso l'altro con le braccia aperte.
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