domenica 26 marzo 2017
Della Provincia, e del perché deve funzionare...
Ho seguito la protesta delle Province, che ha visto i Presidenti denunciare lo stato in cui versa un Ente che, ad oggi, la nostra Costituzione continua a prevedere.
Dico qualcosa, perché io questo Ente lo conosco, ne conosco il funzionamento, e conosco le persone che tuttora ci lavorano. E non mi sembrava giusto tacere.
Bisogna -ahimé- fare una premessa, in questo Paese nel quale esprimere una posizione sembra preludere al fatto che si sta dalla parte di questo o di quello.
Io sto dalla parte dei territori.
Di tutti i territori, compreso il mio, e dei cittadini, che hanno diritto ad avere servizi sufficienti.
E credo che le istanze poste dalle Province, compresa la nostra, siano istanze giuste.
Perché il referendum del 4 dicembre ci ha consegnato -ci piaccia o meno- un quadro nel quale le Province continuano ad esistere, come Ente di rango costituzionale, cui la legge Delrio e le leggi regionali continuano ad attribuire funzioni importanti.
Funzioni che incidono sulle scuole, sulle strade, sull' assetto del territorio.
Funzioni che incidono fortemente sulla qualità della vita quotidiana dei cittadini, e che devono essere necessariamente esercitate.
È quindi opportuno svolgere una riflessione seria sull' architettura istituzionale del nostro Paese, e mettere in condizione gli Enti di svolgere appieno le proprie funzioni. Verificando come reindirizzare le risorse, stringendo un patto forte con i territori, svincolando le risorse laddove esse sono disponibili.
In questo senso, ho apprezzato molto la proposta dei dirigenti scolastici, rispetto alle risorse della scuole.
Ma è importante prima di tutto fare un' operazione di ascolto importante, stringere un patto con i nostri Amministratori, a partire da coloro che si sono assunti l' onere di guidare le Province, e di sedere nei Consigli Provinciali.
Amministratori che sono anche Sindaci, che conoscono il territorio, e sono portatori non dei loro interessi particolari, ma di quelli dei cittadini che sono chiamati a rappresentare.
Mi pare che questa dovrebbe essere l'ottica da assumere. Ascolto reciproco, e pragmatica volontà di individuare soluzioni concrete non per gli amministratori, ma per i cittadini, che ci chiedono di avere servizi adeguati alle tasse che pagano.
Il problema riguarda tutti noi. Non solo i Presidenti, non solo i consiglieri, non solo il ceto politico, il cui linguaggio i cittadini comprendono sempre meno, ma tutti coloro che si impegnano -a prescindere dal proprio ruolo- per il territorio.
Che è il bene più prezioso che abbiamo.
Ho vissuto in questi anni il travaglio dei dipendenti della Provincia, frustrati non per il proprio interesse personale, ma per non poter dare ai cittadini le risposte che chiedevano.
E ho visto competenze importanti rischiare di perdersi. Non per responsabilità di qualcuno, ma per un contesto complessivo non adeguato alla situazione in cui ci troviamo.
Un contesto che non è quello che come Partito Democratico avremmo voluto.
Ma che è quello che gli italiani ci hanno consegnato.
Per tutte queste ragioni credo che le istanze poste dai Presidenti delle Province siano legittime, e che dovremmo con spirito costruttivo interpretare e capitalizzare.
lunedì 20 marzo 2017
Don Peppe Diana, l' attualità del suo messaggio e il 21 marzo
http://www.caritasitaliana.it/caritasitaliana/allegati/1230/Materiali_donGiuseppe_Diana.pdf
Ieri ricorreva l' anniversario dell' omicidio di don Peppe Diana, e domani si celebra la giornata in ricordo delle vittime di tutte le mafie.
Mi pareva giusto scrivere di don Diana, perché non tutti conoscono la figura di questo prete di campagna, che pure ha lasciato con il suo esempio concreto una traccia indelebile in uno dei territori probabilmente più sfregiati dalla camorra: Casal di Principe.
Ho inserito un link all' inizio di questa mia riflessione, che contiene il documento che don Diana aveva dedicato al suo popolo. Leggetelo:è breve, e molto bello!
Andiamo per ordine.
Don Diana aveva avuto la classica formazione teologica, era un parroco colto, laureato in teologia e filosofia, cui alla fine degli anni '80 fu assegnata una parrocchia in una terra difficile, in cui la camorra non solo era presente, ma controllava il territorio.
Lo controllava socialmente, tanto da diventare un punto di riferimento per la popolazione locale, lo controllava economicamente, dopo essersi legata all' imprenditoria del luogo, e lo controllava politicamente, arrivando a fondersi con il potere politico locale.
Insomma, la camorra di Casal di Principe aveva portato a compimento il percorso che consente alle mafie di conquistare tutti i livelli del potere, e quindi di governare il territorio.
In questo contesto, fin dall'inizio, don Diana diventa elemento di disturbo. Perché inizia a lavorare alacremente sul territorio, soprattutto con i bambini e i ragazzi. Un lavoro pericoloso per la camorra, perché i giovanissimi, non ancora completamente avviluppati nella rete della camorra, potevano rappresentare quel detonatore, quel fattore di cambiamento che è l' unica arma contro un controllo così stringente come quello che la camorra aveva costruito sulla comunità casalese.
E don Diana educò bambini, ragazzi e poi adulti.
Pronunciò parole nuove, invitò a leggere, a studiare, a guardarsi intorno.
Invitò i casalesi ad alzare la testa, a capire che la camorra poteva non essere l' unica alternativa.
E che, mentre dava l' illusione di dare lavoro, frenava lo sviluppo, perché il primo interesse era arricchire se stessa, non i casalesi.
E don Diana dava fastidio perché queste cose le diceva in chiesa, con la forza conferita dall' altare, in una terra nella quale non sempre la Chiesa era stata all' altezza del compito evangelico.
Era quindi rapidamente diventato elemento di rottura di quegli equilibri, apparentemente immutabili, di cui tutte le mafie si nutrono.
Equilibri che garantivano i poteri locali, quelli economici e quelli politici, consentendo loro di autotutelarsi ed autoriprodursi, purché si accettasse di stare all' ombra della camorra.
Uno schema che appare a noi che lo osserviamo da fuori talmente classico da scadere nella banalità.
Ma proviamo a metterci nei panni di un giovane casalese che non trova lavoro.
O proviamo a chiederci se sui nostri territori non abbiamo davvero mai avuto la sensazione che sia accaduto o stia accadendo qualcosa di simile -magari non con omicidi o spargimento di sangue.
Attenzione, perché i meccanismi sono sempre più sottili di quanto appaiano.
Insomma, l' evangelizzazione di don Diana si fa sempre più pericolosa.
Le maglie della rete camorristica si fragilizzano, anche per ragioni interne di potere, e la soluzione resta solo una: uccidere.
Uccidere un prete era un atto rischioso, perché avrebbe scosso la comunità e indebolito il controllo sociale, ma non si trovò altra soluzione: don Diana doveva morire.
E così fu. Il 19 marzo 1994 gli spararono, mentre si preparava a dire la messa, con nel cuore probabilmente altre parole per i casalesi e contro la camorra.
Parole che quella pistola gli soffocò in gola.
Ma la testimonianza, quella laica, e quella evangelica, era stata troppo forte, e l' eco di quello sparo travalicò i confini della provincia ed ebbe, anche negli anni a venire, ampio risalto in tutto il Paese, tanto da fare di don Diana un simbolo di libertà, di coraggio, di cultura e di amore viscerale per il territorio.
Casal di Principe forse non si è ancora liberato delle catene invisibili ma fortissime della camorra, così come tante altre zone del nostro Paese -e stolto sarebbe chi pensasse che la criminalità organizzata riguarda solo il Sud.
Ma di certo ha preso coscienza di sé.
E il peggior nemico delle mafie -di tutte le mafie- è la cultura della legalità, la denuncia costante, la testimonianza infaticabile.
Per questo, domani è importante essere accanto a Libera -se potete, con la presenza- e a tutte le altre associazioni che lavorano ogni giorno per fare della cultura dell' antimafia uno dei tratti centrali dell'educazione dei nostri giovani.
Nei giorni in cui la primavera vince sull' inverno, testimoniare per la libertà, contro l' oppressione del crimine, è un bellissimo dovere civico.
E chi non potrà esserci fisicamente, magariperché ha un lavoro da cui non può assentarsi, si avvicini a queste associazioni.
Troverà un mondo di persone bellissime, impegnate, concrete ed accoglienti.
Perché poche cose uniscono come la cultura della legalità.
Buona primavera Libera a tutti!
domenica 5 marzo 2017
Del perchè ancora Pd, e del perchè con Andrea Orlando
Ho riflettuto a lungo se fosse il caso di scrivere qualcosa di articolato sul congresso.
Per la prima volta da quando ho aperto questo blog, c' erano sullo schermo quattro diverse bozze di post che avevo iniziato e mai concluso.
Perchè?
Perchè non sono giorni facili, e per chi vive la politica come una passione forte, ma essenziale e non ama indulgere nella retorica, è difficile fermare cuore e cervello e farlo in maniera costruttiva.
Oggi, ho deciso che sì, era giunto il momento di fissare qualche concetto.
E allora, eccomi qua.
Sarà un post lungo, e molto autobiografico, quindi se vi piacciono i tweet e le conte, eccovi serviti: resto nel Pd, e voterò Andrea Orlando, impegnandomi per lui in questo congresso.
Serviti gli impazienti, e i centometristi, si prosegue per i maratoneti.
Le radici di queste scelte iniziano da lontano.
Iniziano, come per tanti, in quel congresso del 2007, a Firenze.
Quando una storia si chiudeva ed un'altra se ne apriva.
Io ai Democratici di Sinistra ho voluto un bene dell' anima.
Quello non è stato il mio primo Partito (ho vissuto un anno nel Pds), ma sono stati il Partito nel quale sono cresciuta, e nel quale ho vissuto le prime vittorie e le prime sconfitte.
Tutte collettive, anche quando la candidata ero io.
Sempre, sempre insieme, con i Compagni e le Compagne di una vita.
I più grandi, che mai ci saremmo sognati di rottamare, di chiamare sciacalli -anche quando un po' lo erano- ma verso cui nella battaglia politica c' era anzi un grande rispetto.
Nel 2007 scegliemmo, in molti con una gran pena nel cuore.
E quando si sceglie con la pena nel cuore, è perchè si lascia qualcosa di molto importante e si vuole costruire qualcosa di ancora più importante.
Già all'epoca c' erano i prodromi di quanto sta avvenendo oggi.
Ho visto Compagni ed Amici di tutte le età scegliere con un po' troppa leggerezza, all' epoca.
Una leggerezza sospetta, che poi ho visto spiegarsi e disvelarsi le proprie ragioni.
Gli anni sono passati, le delusioni, individuali (alcune cocenti) e collettive non sono mancate, così come non è mancata qualche soddisfazione (sempre meno, inutile nascondermelo e nascondervelo).
E quando parlo di delusioni, non parlo di sconfitte congressuali, alle primarie o alle elezioni.
No, parlo di posizionamenti e riposizionamenti sempre volti a tutelare se stessi più che la collettività, e di una comunità che si è andata via via sfaldando.
Con un dibattito sempre più sottile.
Il Partito liquido, insomma.
Quello teorizzato da Veltroni, e concretizzato negli ultimi anni (sì, sotto la segreteria di Renzi, ma siccome per me la politica non è mai un fatto individuale, non lo è nemmeno la responsabilità, seppure è il momento di farla finita di dire che "tutti i gatti sono bigi": non è così e qualcuno, come recita il titolo di un libro di Da Milano, "ha sbagliato più forte").
Questo non è il "mio" Partito, e lo sgomento nel vedere Compagni e Compagne, ma anche Amici ed Amiche che se ne vanno è forte, fortissimo, mentre da questa parte a fianco a me, c'è chi "è un peccato",ma rapidamente "se ne farà una ragione".
E però a fianco di questo sgomento c'è stato un sentimento, che poi è diventato ragionamento politico, che si è rafforzato in me.
Qui, a Pistoia, su questo territorio, fra i miei Compagni, i nostri segretari di Circolo, era davvero scaduto il tempo?
Davvero avrei lasciato a qualcuno la soddisfazione di allargare le braccia e dire "ce ne faremo una ragione"?
Davvero le lacrime c versate nel 2007, quando ero già più che adulta, erano lacrime sprecate?
Davvero avevo lasciato una grande storia, per vederne morire un' altra?
No.
La risposta è stata un sonoro: NO!
No, per i nostri Circoli,
No, per il mio territorio.
No, per una coalizione che in questi cinque anni ha avuto IN QUESTO Partito Democratico un punto di riferimento forte, fortissimo.
No, perchè il Partito Democratico ha anche il nostro volto. Il volto delle tante persone che sui territori in questi anni hanno lavorato duro.
Intendiamoci subito.
Chiunque dirà che chi se n' è andato, l'ha fatto "per la data del congresso, perchè non sopporta Renzi o perchè vuole le poltrone" troverà sempre in me una feroce oppositrice.
Molti di quei Compagni li conosco, e le loro lacrime non meritano solo rispetto, ma il silenzio che chi vive di social e tweet probabilmente non sarà mai in grado di avere o di dare a qualcun altro.
Ci sono ragioni profonde, politiche, personali e di cultura politica. Motivazioni nate e cresciute negli anni, spesso nel travaglio personale e collettivo.
I cori "fuori, fuori" li abbiamo sentiti tutti.
Gli epiteti, che hanno percorso tutte le categorie zoologiche, le abbiamo sentiti con altrettanta chiarezza.
Quindi, farebbe meglio a tacere chi ha ordito quella trama.
In me, però, si fa strada ancora un' idea, che è quella di provare a continuare a lavorare, perchè mi pare che il mio, e il tempo di quanti credono nel Pd per come è nato non sia ancora scaduto.
Vedo e sento tanti compagni che quattro anni fa fecero una scelta diversa dalla mia, interrogarsi profondamente.
Li osservo, e li ascolto mentre si compie una parabola, con un' accelerazione fortissima dal 4 dicembre in poi.
Li sento, mentre lamentano l' assenza di una vera analisi sulla sconfitta al referendum, e prima ancora sulle sconfitte alle ultime tornate amministrative.
Sconfitte via via sempre più forti, sempre più deflagranti.
Guardo queste persone, che quattro anni fa si sono affidate (errore gravissimo, in politica) al sogno del condottiero solitario, e della rottamazione e che ora, con onestà, si chiedono se davvero era questo il risultato a cui guardare.
Mi sembra che il mito dell' uomo solo al comando stia disvelando e rivelando tutta la sua essenza fallace.
E allora, ho messo insieme i pezzi, come in un puzzle che va via via ricomponendosi, e mi sono chiesta se non fosse possibile provare a giocare una nuova partita, per dare una risposta agli uni e agli altri.
E mi sono risposta di sì.
Da lì, da quel momento è stato tutto più semplice.
C' era una sola candidatura che aveva, ed ha, queste caratteristiche: quella di Andrea Orlando.
Sì, lo so.
So benissimo che negli anni trascorsi fra i banchi del Governo, non una sola volta la sua voce si è levata mentre si assumevano decisioni per molti di noi insostenibili.
E tuttavia, Andrea Orlando non ha compiuto la scelta più facile per i suoi destini personali come invece altri componenti della sua corrente hanno fatto.
E invece no.
Ha scelto di impegnarsi, per tentare di tenere insieme questa comunità così sfilacciata.
Avrebbe potuto far sentir prima la sua voce? Sì, inutile nasconderlo.
Ma l' ha fatta sentire nel momento più difficile e più importante, dando così una casa ai tanti che oggi sono spaesati. A partire da tanti Giovani Democratici, che numerosi saranno con noi in questa battaglia.
Sarà l' ultima?
Non lo so.
Di sicuro è la più importante.
Per provare a trasformare quelle lacrime di dieci anni fa in un sorriso.
Un sorriso incerto, tirato con qualche ruga in più.
Ma comunque un sorriso.
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