"Ci chiederanno se siamo stati credibili, non credenti", scriveva il giudice Livatino pochi giorni prima di essere ucciso.
Noi abbiamo chiesto agli elettori di credere ad una narrazione che descriveva un Paese che non c'era. Abbiamo chiesto agli elettori di turarsi il naso, ma il Paese è fatto di persone che vivono con la testa sott'acqua, e che hanno bisogno di respirare, non di turarsi il naso.
E così ci hanno creduto gli elettori più anziani, che votano per appartenenza, e le elite.
Non ci hanno creduto i disoccupati, i giovani e -soprattutto- i ceti popolari, che sono andati verso il Movimento 5 Stelle (il 14% di chi nel 2013 aveva votato Bersani) o addirittura alla Lega (il 7% della stessa platea), e molti altri invece hanno scelto l' astensionismo.
Ci hanno creduto, cioè, coloro che non sono affatto interessati al cambiamento.
Un fallimento culturale, prima che politico ed elettorale, per chi sull'onda di quel cambiamento si era candidato a guidare il Partito e il Paese.
Non ci hanno votato coloro che dovremmo rappresentare.
Gli ultimi, certo, ma nemmeno quello che era il ceto medio riflessivo -per esempio i dipendenti pubblici, e fra questi sicuramente gli insegnanti.
Perché LeU, dunque, non ha ottenuto un buon risultato, pur proponendosi di rappresentare esattamente quelle istanze?
Perché a mio avviso è stata un'operazione corta nei tempi, non sufficiente, per come è nata, ad assolvere al compito importante che si era proposta.
Il rinnovamento che il Partito Democratico ha messo in atto, si è esaurito nella sostituzione di interi pezzi di classe dirigente, ed è apparso, fin dai primi tempi dopo i fasti del 2014, più orientato alla ricerca del consenso, che non alla creazione di esso.
L' operazione più interessante e culturalmente avanzata, il REI, è giunta a fine legislatura, ed è adeguata a coprire poco più di un terzo delle necessità.
Secondo l' Alleanza contro la povertà erano necessari circa 7 miliardi all' anno per coprire l' intero fabbisogno.
Circa un terzo del Jobs Act, che è costato molto e ha prodotto un mercato del lavoro drogato nei numeri, e dipendente dalla decontribuzione, come ci dimostrano i dati, che evidenziano il crollo delle assunzioni a tempo indeterminato e il perdurare nel lungo termine di un lavoro di bassa qualità, a tempo determinato per circa il cinquanta per cento ed in gran parte part time.
Una riforma che ha finito sostanzialmente, per togliere certezze a chi poteva averle, monetizzando il diritto al lavoro.
Abbiamo prodotto riforme importanti sui diritti civili, ma non abbiamo tenuto insieme la dimensione dei diritti civili e quella dei diritti sociali.
Abbiamo prodotto riforme "a dispetto dei Santi", come la Buona Scuola, portata avanti nonostante l' opposizione di insegnanti e studenti, o la riforma delle Province, che non ha aiutato i nostri amministratori e ha disperso un patrimonio di competenze cresciute in quei luoghi -io posso dirlo perché quelle stanze ho continuato a frequentarle anche dopo il 2012.
Abbiamo in sostanza prodotto un distacco fortissimo dal Paese reale.
Un fallimento politico, culturale, ed elettorale che non si spiega con il generico richiamo al fallimento dei Partiti Socialisti, perché perdono i Partiti del Socialismo Europeo che guardano al centro, ma ottiene buoni risultati Corbyn con il Labour Party, che tocca il 40%, e raddoppia le iscrizioni al Partito.
Abbiamo perso per le politiche messe in atto e per i messaggi che abbiamo dato al Paese e soprattutto al nostro popolo.
Mentre alcuni gridavano "fuori, fuori", sono usciti più gli elettori che i dirigenti.
Altro che turarsi il naso!
C'è bisogno di aria nuova, di riscrivere un patto con il Sindacato, con il cattolicesimo progressista, con le forze sane del Paese che, trovatesi senza più casa politica, si sono rifugiate dove potevano.
Mentre eravamo impegnati a difenderci da D'Alema e Bersani, Di Maio parlava al nostro popolo.
Mentre conquistavamo i centri urbani (e solo nel centro del Paese, insidiati perfino in Emilia Romagna) perdevamo le periferie urbane, le periferie geografiche (il Sud) e le periferie dell'anima.
Ed allora c'è da ricostruire la connessione sentimentale col nostro popolo.
Come?
Andare fra la gente non basta.
Bisogna sapere cosa dire, prima.
E -per inciso- a Pistoia credibilità impone, come ha dichiarato il Segretario Comunale, di dire no al ritorno di chi è stato determinante nella sconfitta del Centrosinistra nel Comune Capoluogo.
E allora basta con la narrazione.
Bisogna dire la VERITÀ.
Perché il Paese è fatto di venti-trentenni che vivono di stage, tirocini, "esperienze" (prevalentemente a titolo gratuito).
Il Paese è fatto di quarantenni per bene, che impiegano due anni per aprire una propria attività.
Di donne ancora costrette a scegliere fra lavoro e famiglia.
Sono tre esempi non casuali, ma che mutuo dalla vita di ogni giorno.
Perché io non ho bisogno di tornare fra la gente comune:lo sono io stessa.
Allora si deve parlare di povertà -sia essa assoluta o relativa- di precarietà, di working poor.
E si deve rigenerare dalle fondamenta questo Partito, SE lo si può ancora fare.
Per questo, niente formule precostituite, anche da noi, perché il 4 marzo ha travolto tutte le logiche che conoscevamo, a partire da maggioranze e minoranze formatesi prima dello tsunami che ci ha investito.
Quindi, sì alla collegialità, purché questa non sia riproposizione di alchimie ormai scadute.
Con un orizzonte che sia il congresso, con tempi certi, ma soprattutto preceduto da un'operazione verità.
Un'operazione che non può esaurirsi con le dimissioni di Matteo Renzi ma che chiede un passo indietro ad un' intera classe dirigente, perché se è vero che la responsabilità non poggia mai sulle spalle di una sola persona, è altrettanto vero che in politica le responsabilità devono essere sempre chiare. E c'è stato chi in questi anni, inascoltato quando non dileggiato o emarginato, ha provato a evidenziare quanto stava accadendo.
Un' operazione verità necessaria ovunque.
Perché per essere credibili, come chiedeva il giudice Livatino, bisogna essere sinceri.
Soprattutto con se stessi.