Quella che segue è, in estrema sintesi, la vita di Enrico Berlinguer, che oggi avrebbe compiuto 94 anni. Prima dei fatti, mi piace, su questo mio spazio, porgervi quello che non può essere un mio ricordo (avevo 7 anni quando Berlinguer morì), ma sicuramente il modo in cui ho vissuto il Berlinguer uomo e politico.
Prima, ragazzina già interessata alla politica, attraverso gli occhi di mio padre, e poi, più adulta, attraverso le mie letture e i miei stessi occhi.
Non è semplice descrivere ciò che per me rappresenta Enrico Berlinguer. E' facile farsi trasportare dalla retorica e dall'emotività più che dall'analisi, ma cercherò di non farlo, per rispetto a lui, che retorico non lo fu mai, ed ideologico solo a tratti (e solo nella prima fase della sua vita, necessariamente, come accadeva a quasi tutti i giovani comunisti che si affacciavano in quegli anni alla vita pubblica). Erano anni nei quali "il Partito" si accostava quasi ad una Fede, e rappresentava per molti uno spazio di riscatto sociale, una vera comunità.
Ed Enrico Berlinguer rappresentò tutto questo. Dette voce a chi non ne aveva. Ma fu anche il dirigente comunista che innovò profondamente il Partito, che lo condusse fuori dallo strapotere sovietico, che riuscì -lui, così piccolo fisicamente- a levare la propria voce di fronte ai dirigenti di tutti i Partiti Comunisti riuniti a Mosca. E, partendo dallo "strappo" con Mosca, riuscì a far diventare l' "anomalia italiana" ispirazione per molti dei Partiti Comunisti e delle Socialdemocrazie Europee a venire.
Fu il dirigente di quello che venne impropriamente chiamato "compromesso storico" (che di compromesso aveva davvero poco, e fu soprattutto alta sintesi dei migliori valori e culture democratiche dell'epoca), di quel bellissimo progetto che insieme ad Aldo Moro riuscì solo ad abbozzare, l'uomo che subì come una ferita profonda il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro, il politico che costruì l'Eurocomunismo, bellissima intuizioni poi dispersa con la sua morte.
E fu il Segretario che più di ogni altro innovò il linguaggio e i mezzi di comunicazione interni al Partito.
Certo, nella retorica non bisogna dimenticare che fu anche custode dei valori del PCI, con tutto ciò che da questo discendeva: così, è giusto ricordare l'emarginazione dei giovani del Manifesto, che, pure con sofferenza umana, Berlinguer da vicesegretario contribuì a portare fino alle estreme conseguenze dell'espulsione, come l'ortodossia del Partito richiedeva.
Un episodio che racconta della cultura di cui Berlinguer era portatore e in cui si era formato.
E poi fu l' uomo dell' austerity e della questione morale, che forse rappresenta il suo testamento ideale. L'uomo che, con una frase attualissima ebbe a dire: "I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela". Parole che oggi pesano come pietre. Ancora oggi, a più di trent'anni dalla sua morte. e fu sulla questione morale che nacque la spaccatura con Napolitano. Guarda caso. Perchè Berlinguer sosteneva che dovesse divenire questione identitaria, fondante del PCI. Napolitano no, perchè avrebbe condotto, diceva, il PCI all'isolamento. E d'accordo con Napolitano sarebbe stato, molti anni dopo, Walter Veltroni. Per fortuna, quel congresso lo vinse Berlinguer: per il PCI la questione morale non poteva che essere identitaria.
Enrico Berlinguer fu profondamente uomo DEL Partito e DI Partito. Fortemente ancorato alle sue strutture e ai corpi intermedi. Per questo non ho apprezzato il film di Walter Veltroni, che sembra quasi teorizzare che invece fosse il leader populista in senso tecnico, che vive in rapporto osmotico con il corpo elettorale, in quella che oggi chiamiamo la "disintermediazione".
Anche se, certamente, Enrico Berlinguer fu uomo profondamente amato dal "suo" popolo. Per la capacità di dare l'esempio, per la coerenza fra ciò che diceva e ciò che faceva. Perchè è stato il primo Segretario a portare il Partito Comunista a un passo dal governo del Paese, a superare gli steccati dell'ideologia senza abbandonare l'idea, avremmo detto poi, "che un altro mondo è possibile". L'uomo che portò il PCI alla guida di tante Amministrazioni. L'uomo che coniugò concretezza e visione.
io voglio bene ad Enrico Berlinguer. Mi commuovo al pensiero di ciò che è stato, e -certo- ogni tanto mi chiedo come sarebbe stato oggi il mio Paese se Moro non fosse stato ucciso, e se lui non fosse morto quando ancora aveva tanto da dare.
Ma oggi si ricorda la sua nascita, non la sua morte. E lui, per me, con la sua testimonianza e la sua storia è ancora qui con noi. Vive negli occhi di sua figlia, Bianca, che giustamente ne ha di recente denunciato la strumentalizzazione, negli occhi del suo autista, che nel reportage dedicato ai suoi funerali ne parla con tanto amore. E vive negli occhi di mio padre e di tanti compagni, di tutte le età. Per questo non è consegnato alla storia, come -di nuovo- il film di Veltroni vorrebbe farci credere.
E allora buon compleanno, Enrico!
LA VITA di ENRICO BERLINGUER
Enrico Berlinguer nasce il 25 maggio del 1922 a Sassari. Nella cittadina sarda trascorre l’infanzia e l’adolescenza, frequenta il liceo classico Azuni e nel 1940 si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Nell’agosto del 1943 aderisce al PCI. Inizia allora il suo impegno politico con la partecipazione alle lotte antifasciste dell’Italia badogliana dove impera la guerra civile. Nel gennaio del 1944 viene arrestato con l’accusa di essere il principale istigatore delle manifestazioni per il pane, che si sono svolte nei mesi precedenti. Resta in carcere quattro mesi. A settembre si trasferisce a Roma con la famiglia, poi a Milano dove lavora nel Fronte della gioventù, il movimento politico fondato da Eugenio Curiel per coordinare l’arcipelago delle organizzazioni giovanili antifasciste.
La sua carriera politica nel PCI comincia nel gennaio del 1948, quando a ventisei anni entra nella direzione del partito e meno di un anno dopo diventa segretario generale della FGCI, la Federazione giovanile comunista. È un uomo instancabile che gli amici descrivono timido e introverso. Un giovane dirigente comunista, lontano dalla mondanità e dai clamori della politica, che nel 1956 lascia l’organizzazione giovanile e l’anno dopo sposa a Roma Letizia Laurenti.
Nel 1958 Berlinguer entra nella segreteria del partito per affiancare Luigi Longo, vicesegretario e responsabile dell’ufficio di segreteria. Da allora il rapporto fra Berlinguer e il segretario Togliatti diviene quotidiano. Togliatti si fida di questo giovane dirigente sardo, tanto che nel febbraio del 1960, al IX Congresso del PCI, lo vuole al posto di Giorgio Amendola come responsabile dell’organizzazione del partito e nel dicembre del 1961 chiede a Berlinguer di scrivere la relazione finale del comitato centrale del partito, dove proprio Amendola ha ripreso la polemica sui crimini stalinisti.
Fra il 1964 e il 1966 Berlinguer mostra la sua grande capacità di mediare gestendo un grosso scontro interno al partito. La destra del PCI, rappresentata da Amendola, sostiene la formazione di un unico partito socialista che unisca tutte le forze della sinistra italiana. L’ala radicale di Pietro Ingrao, invece, si batte affinché il PCI si allei con i gruppi della sinistra rivoluzionaria. All’XI Congresso, nel gennaio del 1966, Berlinguer si fa interprete delle esigenze di tutto il partito presentandosi come un mediatore di prima grandezza. È un successo personale, confermato due anni dopo dalle elezioni del 1968 in cui è capolista nel Lazio. Un successo che esplode e si diffonde dopo i fatti di Praga. Berlinguer condanna l’intervento sovietico in Cecoslovacchia e respinge «il concetto che possa esservi un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni». Lo strappo è senza precedenti. Nel 1969 a Mosca, alla conferenza internazionale dei partiti comunisti, dichiara apertamente il dissenso dei comunisti italiani nei confronti della politica stalinista.
Ormai è vicesegretario del PCI. Al congresso del 1969, Berlinguer appoggia la linea movimentista e introduce uno dei temi più importanti del suo progetto politico. Ai delegati presenta il partito come una forza centrale della società italiana, una forza fra le istituzioni e i cittadini, che deve essere coinvolta nella formazione e nella gestione dei processi democratici del paese perché ne è parte decisiva. Il PCI che vuole Berlinguer non è solo il partito della classe operaia: deve candidarsi a guidare il paese, ponendo fine alla conventio ad excludendum per cui i comunisti di fatto sono esclusi dal governo.
Nel 1972 Berlinguer diviene segretario del PCI e al XII congresso riprende la formula togliattiana della collaborazione fra le grandi forze popolari: comunista, socialista e cattolica. Ma c’è anche di più, non si tratta solo di ribadire la tesi che Togliatti espresse sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Con tre articoli su «Rinascita», fra il settembre e l’ottobre del 1973, Berlinguer propone la sua analisi della società moderna partendo dal colpo di Stato in Cile, che ha mostrato a cosa può andare incontro una democrazia fragile. Così scrive il 12 ottobre del 1973: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano». Lo spiega chiaramente. L’Italia è una democrazia debole che ha bisogno di un’alternativa condivisa e costruita dai grandi partiti di massa.
Il grande successo elettorale, ottenuto dai comunisti italiani alle elezioni del 1975 e del 1976, conferma l’intuizione di Berlinguer e sconvolge il sistema politico, ormai da anni afflitto da un’endemica instabilità e bloccato dalla DC che è al centro dei governi e delle maggioranze parlamentari. I tempi sembrano maturi per un cambiamento radicale della politica italiana. Nel 1976 accanto alla proposta del compromesso storico, Berlinguer esplicita l’altro tema della sua politica di dirigente comunista: rompe con il Partito Comunista sovietico. A Mosca, davanti a 5 mila delegati Berlinguer parla del valore della democrazia e del pluralismo, sottolinea l’autonomia del PCI dall’URSS e condanna l’interferenza dei sovietici nelle questioni dei partiti socialisti e comunisti degli altri paesi. È l’eurocomunismo.
Con il compromesso storico e l’eurocomunismo, Berlinguer porta il PCI, dopo le elezioni del 1976, al primo governo della solidarietà nazionale. Si tratta di un monocolore democristiano che si regge sulla «non sfiducia», cioè sull’astensione dei vecchi partners di governo ai quali si aggiungono i comunisti. A sinistra, molti sottolineano che non è questa la ratio del compromesso storico e che il PCI non riuscirà ad ottenere ciò che ha chiesto ai democristiani in cambio della non sfiducia. E, infatti, le elezioni del 1977 non lo premiano. Nel gennaio 1978 Berlinguer incontra Aldo Moro, il leader democristiano con cui ha costruito il governo della solidarietà nazionale e gli chiede di agevolare l’entrata dei comunisti al governo. Ma ad opporsi sono in molti: la destra democristiana, il Vaticano, gli amici americani, la destra italiana. E intanto nel paese il terrorismo miete le sue vittime; due mesi dopo le BR rapiscono e uccidono Moro. È la fine della solidarietà nazionale e del progetto di Berlinguer. Il PCI torna all’opposizione.
Nel 1981, in un’intervista a Eugenio Scalfari, Berlinguer accusa la classe politica italiana di corruzione, sollevando la cosiddetta questione morale. Denuncia l’occupazione da parte dei partiti delle strutture dello Stato, delle istituzioni, dei centri di cultura, delle Università, della Rai, e sottolinea il rischio che la rabbia dei cittadini si trasformi in rifiuto della politica. È l’analisi di un grande leader politico che l’11 giugno del 1984 a Padova, mentre conclude la campagna elettorale per le elezioni europee, viene colpito da un ictus. Il suo funerale è stato il più imponente della storia d’Italia, dopo quello di Giovanni Paolo II. A Roma erano milioni i cittadini che lo salutarono l’ultima volta.
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