venerdì 12 agosto 2016

Alcune storie degli atleti di Rio 2016: quando lo sport si fa vita


Come sa chi mi conosce, non amo particolarmente lo sport. 
Ho provato a praticarlo da ragazzina, ma non c'era verso: troppo lenta per la corsa, troppo sgraziata per il pattinaggio, troppo competitiva per la pallavolo (nel senso che entravo in competizione con le mie compagne di squadra!).
Appesi scarpe e pattini al chiodo, non mi  è rimasto altro che seguirlo in TV, essendo peraltro sposata ad un uomo che ama lo sport, qualunque esso sia.

C' è da dire però che riconosco allo sport alcuni grandi pregi. 
In particolare, la capacità di insegnare la disciplina, il sacrificio, e di essere di per sè democratico: nello sport non puoi ingannare -salvo il doping, ma insomma, oggi come vediamo i controlli sono sempre più rigidi, e comunque alla lunga anche il doping non basta- se sei bravo vai avanti, altrimenti fai come me.

E le Olimpiadi sono sempre un momento di grande festa: colori e discipline che si mescolano fra di loro, e ci consentono di scoprire nuovi campioni, nuovi sport, nuovi legami.
Mi pare che Rio 2016 abbia da questo punto di vista contribuito davvero tanto, perchè ho scoperto, fra le pieghe del medagliere, tante storie che mi hanno colpito.
Storie difficili, di coraggio, dolore, abnegazione e -alla fine- trionfo, che può esserci al di là delle medaglie, e può esaurirsi anche solo nel partecipare alla gara.
Voglio provare a raccontarvene alcune.

Partiamo dalla divina Simone Biles, che ieri, a quanto ho potuto vedere -io ero fuori, mannaggia!- ha stregato il pubblico con un esercizio, in particolare al corpo libero, che ha ricordato a tanti il mito Comaneci, inventando addirittura un passaggio, e sfiorando la perfezione nel punteggio. Forse non tutti sanno che questa giovanissima atleta ha alle spalle una storia difficile, che avrebbe potuto trasformarla in una giovane introversa e solitaria:  la madre di Simone era tossicodipendente, e a soli tre anni lei ha dovuto andare a vivere col nonno. Poi, tre anni più tardi, l'ingresso in una palestra, e l'amore per questa disciplina, che l'ha presa sollevandola più su, sempre più su, lontana da un'infanzia difficile, e al centro di quel podio.

C'è poi la nuotatrice statunitense Kathleen Baker, che ha vinto l'argento nei 100 metri dorso, nonostante soffra del morbo di Crohn, una brutta infiammazione all'intestino che provoca gravi e dolorosi attacchi. Un'atleta che ha dovuto convivere col dolore e che grazie all'acqua ha superato i tanti ostacoli che le si paravano davanti. Tanto che ha subito dichiarato: "Spero che la mia vittoria sia di ispirazione a tanti." La lezione è che non ci si può lasciar abbattere. Mai. Finché la parola "FINE" non è scritta con inchiostro indelebile.

Una storia simile è quella del britannico Chris Mears, che assieme a Jack Laugher ha portato alla Gran Bretagna il primo oro nei tuffi sincro dal trampolino tre metri. Forse non tutti sanno che Chris aveva contratto a 16 anni il morbo di Eipsten-Barr, che provoca la frattura della milza. A questo ragazzino inglese avevano dato solo il 5% di possibilità di rimanere in vita. E lui, anni dopo, ha risposto con un oro a Rio de Janeiro. Anche lui non ha mollato.

Non è stato da meno Lawrence Brittain, medaglia d'argento al due senza nel canottaggio, cui è stato diagnosticato un tumore ai linfonodi. Non so come proseguirà la sua vicenda personale, ma di sicuro sappiamo che ieri ha vinto. Due volte: sulla barca e contro la disperazione.

Diversa, ma non meno difficile, la storia di Rafaela Silva, nata e cresciuta in una favela. Rafaela è stata tratta in salvo dal padre, che l'ha avviata ad un progetto per giovani nati nelle favelas, grazie al quale ha potuto avvicinarsi al judo: un amore che oltre a portarla lontano da solitudine e povertà, l'ha portata sul secondo gradino del podio nella categoria dei 57 Kg. Ce l'avrebbe fatta, Rafaela, senza lo sport? Forse sì, o forse no. Di sicuro sappiamo dov'è arrivata.

E poi c'è Yusra Mardini, nuotatrice siriana, ma appartenente alla squadra dei rifugiati- questa novità bellissima che Rio de Janeiro ci ha regalato- che ha partecipato ai 1o0 metri stile libero e farfalla. E che è arrivata alle Olimpiadi dopo aver tratto in salvo la sua famiglia, spingendo fino alla costa quella barca maledetta che si era fermata durante uno dei viaggi della speranza di cui apprendiamo -quando giornali e TG ce lo dicono- quasi ogni giorno.

Tutte queste storie -e forse anche altre che io non ho trovato- ci dicono due cose.

La prima: c'è sempre speranza. Sempre. Anche quando tutto intorno sembra crollare, devi provarci. Devi provare a superare i tuoi limiti, a forzare più di quanto tu credessi di poter fare. Magari poi il tuo mondo crolla comunque, ma almeno  tu sai di aver fatto molto più di quanto la ragione e la razionalità sembravano suggerire.
La seconda: lo sport può davvero essere una grande spinta di vita. Una grande, immensa opportunità di crescita, indipendentemente dai risultati che si raggiungono. Come ogni grande passione, e forse più di tanti altri campi di impegno, può essere elemento di emancipazione. Dalla malattia, dalla povertà, dall'emarginazione. 

Queste Olimpiadi, mi hanno insegnato cose che mai avrei creduto di pensare. 
E allora sì, se mai avrò un figlio, vorrei davvero che praticasse sport. Qualunque sport, ed indipendentemente dalle sue capacità o idoneità.

E infine, Rio 2016 -per lasciarci con una nota positiva- sono state anche le Olimpiadi dell'amore.
Quello che unisce Marjorie Enya, volontaria addetta al campo di rugby, alla rugbista Isadora Cerullo, e sfociato nella proposta di matrimonio e nel bellissimo bacio, che per me è fra le immagini simbolo di questa Olimpiade.

E l'amore che unisce la nostra amazzone, Valentina Truppa -fra l'altro, vittima lo scorso anno di un infortunio che le provocò il coma- verso il proprio cavallo, infortunatosi pochi giorni prima della gara, ma subito guarito.

Vi lascio con le parole che su Facebook Valentina ha dedicato al suo fedele compagno: 

«A te compagno di mille avventure dopo 15 anni insieme,vincitore morale di questa olimpiade per tante ragioni non ultima la ripresa in 24 ore dall'infortunio, tirando fuori il tuo lato guerriero, sono stata più cauta io poi, posso solo dire GRAZIE con tutto il mio cuore per quest'ultima grande avventura! Abbiamo affrontato tutto insieme da junior a un'olimpiade, cosa si può chiedere ancora? Ora mio grande compagno di vita avrai il giusto riposo che un campione come te merita. Grazie per i risultati dati a me e all'Italia in questi anni. Sarai il mio eroe sempre! Con amore, Valentina». 


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