mercoledì 24 agosto 2016
Due belle storie nella tragedia: quando i migranti ci insegnano
In giornate come questa, poco meno di ventiquattr'ore segnate dallo strazio, dall'angoscia e dal cuore sospeso, in cui tante storie si sono sgretolate sotto le macerie, con la terra che muggisce e le case che si ripiegano su se stesse è difficile parlare di ottimismo.
Ma io voglio farlo.
Perchè fra quelle macerie, assieme ai tanti volontari che scavano anche con le nude mani, assieme alle persone che fanno la fila per donare il sangue, assieme ai tanti cittadini che racimolano magari i pochi risparmi di questi tempi duri per donarli alle vittime del territorio, ci sono due belle azioni compiute dai migranti presenti su quei territori.
Sono le storie dei 20 richiedenti asilo che, ospiti di una struttura sita a Monteprandone (Ascoli Piceno) sono partiti come volontari per Amandola, e dei 75 ospiti dello Sprar di Gioiosa Ionica che hanno donato alle vittime del territorio il loro pocket money (ossia i pochi spiccioli -poco più di due euro al giorno- che vengono assegnati loro per comprare piccole cose).
Mi pare che queste due belle storie siano sbocciate come fiori dalle macerie.
La migliore, involontaria risposta a tutti coloro che vanno contrapponendo i migranti (spesso chiamandoli sprezzantemente immigrati), al grido di "rimandiamoli a casa loro, a pedate" (come mi hanno appena scritto su Facebook).
Due piccole, grandi storie che mi hanno dato modo di riflettere su quanto queste vicende di migranti siano ormai intrinsecamente connesse con il nostro tessuto sociale ed urbano.
Due storie che sono giunte nel momento della disperazione, e purtroppo dopo tanti episodi di intolleranza, che si consumano nel silenzio generale, come mi è capitato di riflettere da alcuni giorni, e che hanno colpito anche la mia provincia, nella quale giorni fa, almeno stando alla stampa, il Sindaco dell'Abetone aveva deciso di chiedere al Prefetto la disponibilità di un autobus ad hoc per i migranti, da non condividere con i cittadini.
Per ragioni di sicurezza, o forse addirittura, stando al giornale, perchè altrimenti i giovani abetonesi rischiavano di non trovare posto.
Mi è sinceramente dispiaciuto leggere simili notizie, leggerne proprio con riferimento al mio territorio, quella stessa regione il cui Presidente Rossi si sforza quasi quotidianamente di annullare le distanze, e quella terra che ha dato i natali al Presidente del Consiglio di questo Governo, che con tanta forza si è attivato per gestire il tema delle politiche migratorie.
Sappiamo tutti, e lo sanno i Sindaci per primi, che la questione delle politiche migratorie viene troppo spessa definita emergenza, ed invece ormai è tema che non può che essere strutturale, e non può che interrogarci tutti.
Come cittadini, e ancora di più deve interrogare coloro che fanno politica pur non essendo politici di professione.
Ma non è con la contrapposizione, e con lo scavare solchi più profondi fra cittadini e migranti che terremo insieme le nostre comunità, grandi o piccole che siano.
Come vediamo in queste ore, sono i lavori socialmente utili, assunti anche volontariamente -come hanno fatto tanti Comuni del mio territorio, e come si sta facendo in tante località oggi colpite dal terremoto- che aiutano ad intrecciare nodi fortissimi.
E allora voglio pensarla così: al Sindaco di Amatrice, che ha sconsolatamente detto: "Amatrice non c'è più", vorrei dire -se potessi farlo- che ad Amatrice, e negli altri luoghi squassati dal terremoto in queste ore si sta costruendo una comunità più forte, cementata dalla solidarietà spontanea, che non ha colore, non ha nazionalità, ed è fatta di storie, spesso di dolore.
Chi ha conosciuto l'isolamento, il dolore, la distanza, la privazione della propria identità, può con un gesto ricostruire se stesso, aiutando gli altri.
Due belle storie, due fiori meravigliosi nati dalla sofferenza.
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